The face and voice of an angel, and those were real tears
There's something about her voice that hits deep your soul.This could be the most beautiful recording of all time.
She sings the aching human experience, she sings the voice of the universe....the totality of life's tremendous beauty and suffering, the heights of passion and the shadows of bitter loss...
Fight the real enemy
e poi scriverà una canzone su ciò che avvenne, titolandolaDon't let the bastards get you down!
Dotata di uno straordinario talento di vocalist e di quasi altrettanta capacità autodistruttiva, folle, aggressiva, romantica, disperata, Sinéad O'Connor è una delle grandi protagoniste del rock al femminile a cavallo tra la fine degli anni 80 e il decennio successivo. La sua è sempre e comunque una vita esagerata. Contro tutti, ma spesso anche contro sé stessa, con i suoi tumulti, le sue sceneggiate e le sue provocazioni, a partire da quando debuttò sulle scene completamente calva a quando strappò in diretta tv una foto del Papa, fino alle recente decisione di "farsi suora" e alle rivelazioni sulla sua bisessualità. O'Connor è così riuscita nella doppia impresa di conquistare un enorme successo in tutto il mondo e di dissiparlo in pochi anni. Come un'eterna Penelope che fa e disfa in continuazione la sua tela, questa inguaribile riot girl d'Irlanda sembra non conoscere una delle doti fondamentali di una rockstar: saper gestire nel tempo la propria fama. Risultato: la stardom che lei stessa bramava le si è ritorta contro, in una sorta di crudele pena del contrappasso. E oggi i suoi (facili) detrattori sono quasi più numerosi dei suoi fan.
Sinéad O'Connor nasce nel 1966 a Dublino, nel sobborgo operaio di Glenageary. La sua è un'infanzia travagliatissima: a 9 anni, dopo la separazione dei genitori, viene affidata alla madre Marie. Quando però vengono alla luce gli abusi di costei (alcolizzata e depressa) sui quattro figli, il padre la prende in custodia e la affida a diversi collegi cattolici. Espulsa dalla scuola che frequentava, la O'Connor viene anche arrestata per furto, e rinchiusa in un riformatorio. Sinéad, però, ha fin da piccola il suo rifugio dorato: la musica; a una festa di nozze viene notata da Paul Byrne, bassista della band irlandese In Tua Nua, con cui registra nel 1981 il singolo "Take My Hand"; quindi, entra in un altro gruppo, i Ton Ton Macoute. In quel periodo studia piano e voce al Dublin College of Music. Nel frattempo, riesce a entrare in contatto con l'entourage del manager Fachtna O'Ceallaigh, amico degli U2 e boss dell'etichetta Mother. L'amicizia le frutta la partecipazione alla colonna sonora del film "The Captive" curata da Dave Evans degli U2. E' il preludio al suo debutto su 33 giri, che avviene nel 1987. Nel frattempo, però, un'altra tragedia si abbatte sulla sua vita: la madre muore in un incidente d'auto nel 1985.
The Lion And The Cobra (1987), con chiari rimandi al Salmo 91 della Bibbia, è un esordio fulminante, che porta il nome dell'artista dublinese alla ribalta della scena mondiale. Sinéad ha 20 anni, un look sfrontato (calva, quasi asessuata, in abiti e pose post-punk) e una voce da brividi, capace di improvvise escursioni di registro, di acrobazie funamboliche e di acuti gutturali mozzafiato. Le sue canzoni sono tanto veementi quanto tenere e pure. E il suo stesso canto vibrante, più che indurre alla rabbia, riesce a commuovere per intensità e pathos. I temi del disco spaziano da fiabe senza tempo alla mitologia greca, da una religiosità tormentata a un intimismo crudo e lancinante.
Il repertorio musicale è altrettanto vasto: si va dal punk-rock più aggressivo ("Mandinka") all'hip-hop sensuale di "I Want Your (Hands on Me)", dall'ethno-funk alla Peter Gabriel di "Jerusalem" alla dolce ballata di "Jackie" e al folk d'ascendenza celtica di "Just Like You Said" (per clavicembalo, flauti e fisarmonica), ma il vero tour de force del disco sono i quasi sei minuti e mezzo di "Troy", un pezzo sensazionale, costruito su arrangiamenti para-sinfonici e (soprattutto) sulle clamorose scorribande vocali di Sinéad, che canta con un'intensità davvero epica e con una foga appassionata che non si ricordava dai tempi di Janis Joplin. Coraggiosa come raramente sarà in seguito, Sinéad O'Connor esplora anche i meandri dell'avanguardia vocale, come testimonia un brano come "Never Get Old", che potrebbe tranquillamente figurare in un album di Laurie Anderson.
Forte del successo (soprattutto di critica) ottenuto dal suo disco d'esordio, la O'Connor ha in serbo una bomba per il suo successivo lavoro I Do Not Want What I Haven't Got, che esce nel 1990. Si tratta di un vecchio brano di Prince, che la cantante irlandese riesce a stravolgere completamente, immergendolo in un'atmosfera di disperato romanticismo e di malinconia senza pari: "Nothing Compares 2 U" diventerà uno dei più grandi hit del decennio e il suo più grande successo di sempre. Oltre alla bellezza del brano, forte di una di quelle melodie che aprono il cuore, colpisce nel segno anche il videclip, che ritrae una O'Connor sempre con i capelli rasati, ma quantomai dolce e femminile, che piange calde lacrime d'amore dai suoi grandi occhi da cerbiatta.
Questo nuovo corso "romantico" tende a prendere il sopravvento anche sugli altri brani: smussate le asperità post-punk del debutto, Sinéad veste i panni di una sofisticata chanteuse pop, capace però di interpretare ogni brano in modo vibrante e personale, donandogli sempre quel tocco di pathos in più. Su questo registro "malinconico", nascono alcune delle ballate più memorabili del suo repertorio, come "Feel So Different", "Three Babies" e "The Last Day of Our Acquaintance", alternativamente sussurrate e gridate su un tappeto sonoro sobrio ed elegante, in cui archi e cori non sono mai eccessivi o ridondanti. Non mancano, comunque, episodi più marcatamente ritmati, come il r'n'b che accompagna il canto a capella di "I Am Stretched On Your Grave", il pop aggressivo di "The Emperor's New Clothes" e il rock elettrificato di "Jump In The River", altro singolo di successo estratto dall'album. E resta il valore dei testi: sempre intensi e dolorosamente autobiografici, non privi di qualche spunto di polemica sociale, come la denuncia dell'ipocrisia inglese nella folkeggiante "Black Boys On Mopeds".
Più maturo e meno aspro del precedente, il disco conferma tutto il talento di O'Connor, che mette la sua voce e le sue doti d'interprete al servizio di una sequela di brani indovinatissimi, per melodie, suoni e arrangiamenti.
Con I Do Not Want What I Haven't Got, Sinéad O'Connor getta un ponte tra il post-punk irruento dei primi U2 e le celestiali partiture folk di Enya, compiendo un'operazione di saldatura fondamentale nella storia del musica popolare irlandese.
Nel frattempo, agli onori musicali si alternano comportamenti isterici e provocatori, dettati da una livida collera a lungo repressa. Il suo idillio con l'America, in particolare, finisce precocemente dopo un'incredibile serie di sgarbi: dapprima Sinéad si rifiuta di prendere parte allo show "Saturday Night Live" insieme al comico Andrew "Dice" Clay a causa dei suoi atteggiamenti xenofobi e antifemministi; poi, nel New Jersey, al Garden State Arts Center, s'impunta contro la proposta di aprire il concerto con l'inno americano, come tradizione imporrebbe, facendo infuriare, tra gli altri, Frank Sinatra; infine, quando interviene davvero al "Saturday Night Live" fa ancora di peggio: straccia in diretta una foto del Papa Giovanni Paolo II per protesta contro la politica repressiva attuata dalla Chiesa cattolica nel suo paese. Scandalo e riprovazione internazionale si abbattono sulla O'Connor, che viene in breve tempo etichettata come un'eretica o, nel migliore dei casi, una squilibrata. E' il via a una "caccia alla strega" che la perseguiterà ancora a lungo, nonostante le sue successive scuse e giustificazioni ("In quel momento - racconterà - era stata la cosa giusta per protestare contro l'ingerenza della Chiesa nella vita dell'Irlanda").
Nel bene e nel male, Sinéad O'Connor è ormai una diva, e da diva si comporta in Am I Not Your Girl (1992), una raccolta di cover di classici tratti dal repertorio di grandi stelle della musica (e non solo), di oggi e di ieri: da "Gloomy Sunday" (Billie Holiday) a "I Wanna Be Kissed By You" (Marilyn Monroe), da "Why Dont' You Do Right?" (brano di Joe McCoy, cantato perfino da... Jessica Rabbit!) dalla jazzata "Black Coffee" (Sonny Burke/Paul Francis Webster) all'arcinota "Don't Cry For Me Argentina" (evergreen di Lloyd Webber che di lì a poco spopolerà ancora, grazie alla ben più piatta versione di Madonna in "Evita); ma forse il vero gioiello del disco è la struggente ode amorosa di "Success Has Made A Failure Of Our Home", rielaborazione di un brano di Loretta Lynn, già interpretato da Elvis Costello.
L'ex-punkette irlandese canta con la classe e la verve di una consumata chanteuse, accompagnata da un'orchestra jazzy anni Cinquanta sulle orme delle canzoni che le "hanno fatto venire voglia di diventare una cantante". Nel complesso, un disco gradevole e garbato, ben suonato e ben interpretato, che molti critici, però, non capiranno.
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